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1916: LA "STRAFEXPEDITION". Di Luigi Pedrone

Franz Conrad von Hötzendorf (1852-1925)

Quando il 28 luglio 1914 l’Impero Austro-Ungarico dichiara guerra alla Serbia, l’Italia, alleata degli Imperi Centrali, si proclama neutrale. Infatti, il Trattato della Triplice Alleanza, firmato nel 1882 tra Impero Germanico, Impero Austro-Ungarico e Regno d’Italia, e rinnovato più volte, l’ultima nel 1912,  impegnava i contraenti a prestarsi mutuo soccorso, solo in caso di aggressioni da parte di Potenze terze.

      Tuttavia, Vienna e Berlino incominciano a nutrire qualche dubbio sulle reali intenzioni di Roma. Soprattutto Vienna vede, con comprensibile preoccupazione, la ripresa del nazionalismo italiano antiasburgico che, rimasto in ombra negli ultimi decenni, ma mai sopito, sta risollevando la questione delle cosiddette “terre irredente” . Il movimento interventista italiano, per ora minoritario, è tuttavia contiguo ad ambienti vicini alla Corona e diffuso in ambito militare, anche se i vertici delle forze armate, per senso d’onore, ritengono imprescindibile la fedeltà al Patto della Triplice, pur, in questo frangente, da una posizione neutrale.  Gli  interventisti  godono anche della “benevolenza” del Presidente del Consiglio Antonio Salandra e del Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, nonché del sostegno di ampi settori della grande borghesia industriale, che consente l’organizzazione di un forte apparato propagandistico, a favore di una guerra contro l’Austria-Ungheria  per l’annessione di Trento e Trieste.

   Per Berlino e Vienna la neutralità italiana è vitale per evitare l’accerchiamento che sarebbe derivato dall’apertura anche di un fronte a sud.

  Berlino inizia quindi a premere su Vienna, affinché avanzi all’Italia, a fronte della sua neutralità, proposte di cessioni territoriali alla fine del conflitto; il Governo tedesco compie poi passi diplomatici anche verso la Santa Sede, per un netto pronunciamento dei cattolici italiani contro l’intervento.

    Alla fine, il Governo austriaco, inizialmente restio, si dichiara favorevole ad intavolare con l’Italia trattative per future concessioni territoriali.

  Da parte sua, Vittorio Emanuele III attende l’evoluzione degli eventi, per individuare la condotta più conveniente.

  L’Italia, apre quindi le consultazioni con Vienna per trattare compensi  territoriali, sostanzialmente Trento e Trieste e i relativi territori,  in cambio della neutralità. Ma Roma apre contemporaneamente trattative segrete anche con Londra e Parigi, che premono per una sua discesa in campo a fianco dell’ Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia).  Il cambio di fronte avrebbe fruttato all’Italia, in caso di vittoria,  non solo  Trento e Trieste ma anche il  Tirolo austriaco fino al Brennero, l’Istria (ma non  Fiume che sarebbe rimasta alla Corona d’Ungheria), tutte le isole situate al nord e all’ovest della Dalmazia, la sovranità su Valona e il protettorato su un piccolo Stato di futura costituzione nel cuore dell’Albania.

    Il Salandra, quindi, cogliendo al volo alcune resistenze austriache durante il corso delle trattative e ignorando l’esortazione del neutralista Giolitti a non abbandonare i negoziati, pone fine alle consultazioni con Vienna; il 26 aprile 1915, senza una preventiva consultazione parlamentare, il Governo italiano firma il Patto di Londra, preliminare alla discesa in campo a fianco dell’Intesa.

      Il 3 maggio 1915, l’Italia denuncia quindi il Trattato della Triplice Alleanza, contestando all’Austria di aver dichiarato guerra alla Serbia (dieci mesi prima), in violazione dell’articolo 7 del Trattato medesimo, che dispone preventive consultazioni tra gli alleati, qualora all’insorgere di criticità nei Balcani, uno di essi venga a trovarsi nella condizione di dover intervenire militarmente, per garantire la propria sicurezza.

  Comunque, pur ammettendo come legittima la denuncia del Trattato da parte dell’Italia, nulla sembra però giustificare la dichiarazione di guerra all’Austria–Ungheria che, non avendo mosso alcuna minaccia all’integrità del Regno d’Italia,  si sente quindi  pugnalata alle spalle.

   Verso la Germania, per ora, l’Italia adotta una politica attendista.

   Il 23 maggio, l’Italia dichiara guerra all’Impero austro-ungarico e alle 3 del mattino del 24, presso Palmanova, da un obice italiano parte il primo colpo, sparato in direzione di Gorizia.

  L’Italia entra nel conflitto con 400.000 uomini contro i 100.000 austro-ungarici schierati sul fronte giuliano; ha però grande carenza di mezzi, armamenti obsoleti e una industria bellica incapace di sostenere i ritmi di una produzione di guerra. Infatti, grazie all’alleanza con la Germania, gran parte dell’armamento pesante porta il marchio Krupp.

  Lo sforzo maggiore dell’Italia, come già nel 1866, si proietta ad est, dove, peraltro, c’è  la maggiore concentrazione austro-ungarica; sul fronte nord,  considerati  improbabili gli attacchi da quel settore, sono solo state rinforzate le difese.

    Dal 23 giugno al 2 dicembre 1915, vengono lanciate ben quattro offensive sull’Isonzo che, nonostante il sacrifico e l’abnegazione dei soldati italiani, non portano a significativi progressi; male impostate e mal condotte dai Comandi, sono un susseguirsi di azioni slegate tra loro, che provocano perdite ingentissime, a fronte di risultati tattici assai modesti.

       Dal 9 al 15 marzo 1916, l’Italia sferra la V offensiva dell’Isonzo, che, ancora una volta, evidenzia gravi carenze nella catena di comando. Lo Stato Maggiore infatti, lasciando l’iniziativa ai Comandi  in subordine, dà l’impressione di non essere in grado di ordinare e coordinare le operazioni; si assiste quindi al susseguirsi  di brevi attacchi, slegati tra loro e mal condotti, che riescono solo a tenere occupato il nemico, senza raggiungere risultati di rilevo.

    Constatata la debolezza italiana, il Capo di Stato Maggiore austriaco, Franz Conrad von Hötzendorf,  decide di dar immediato corso all’offensiva, già pianificata nei mesi precedenti, concepita come una “spedizione punitiva” nei confronti dell’ex alleato che aveva tradito. Denominata “Strafexpedition”, “Spedizione punitiva”, appunto, anche se la definizione ufficiale è “Frühjahrsoffensive” , “Offensiva di primavera”,   l’operazione  prevede lo sfondamento del fronte trentino e l’invasione della pianura veneta. Conrad si propone l’annientamento del sistema difensivo italiano e, quindi, il tracollo dell’ex alleato, che sarebbe stato costretto alla resa.

  Vendicato il tradimento, conclusa la partita a sud, Conrad avrebbe potuto concentrarsi sugli altri fronti di guerra.

   Già nel dicembre del 1915, von Hötzendorf, per poter sferrare con una certa tranquillità l’attacco sul fronte sud, aveva chiesto all’alleato tedesco di rimpiazzare sul  fronte russo i contingenti austriaci che  sarebbero stati trasferiti sul fronte italiano.  Berlino però non aveva accolto la richiesta, motivando il proprio diniego con lo sforzo che stava sostenendo sul fronte occidentale, che non consentiva spostamenti di truppe ad est.

    Il rifiuto aveva irritato non poco il Conrad  e aveva reso ancor più tesi  i suoi rapporti con Erich von Falkenhayn,  Capo di Stato Maggiore tedesco, con il quale aveva già avuto screzi durante le precedenti operazioni sul fronte serbo.

   In quel frangente, il Falkenayn  aveva fatto pervenire sue disposizioni direttamente a von Mackensen,  Comandante delle forze tedesche sul fronte balcanico, scavalcando così  lo Stato Maggiore austriaco che in quel settore aveva il comando operativo delle forze alleate. Il Falkenayn, aveva dato l’impressione di agire come se il settore balcanico fosse una questione solo tedesca; in effetti Berlino stava giocando una sua partita per incrementare la sua influenza nella regione, senza troppo tener conto degli interessi di Vienna in quell’area.

   Alla vigila della Strafexpedition, Conrad, ricevuto un nuovo rifiuto di sostegno da parte di Falkenhayn, decide di procedere in ogni caso; considerato che, in quel momento, la tenuta del fronte orientale non presenta grandi rischi, lascia in quel settore forze di seconda linea e sposta forti contingenti nel Tirolo. La manovra prevede lo sfondamento della linea di difesa italiana per proseguire poi, verso sud/ sud-est, in direzione di  Venezia. Lo scopo è quello di isolare le forze italiane schierate nella pianura veneto-friulana, praticamente il grosso delle Forze Armate del Regno, lasciare così senza difese il resto della Penisola e costringere l’Italia alla resa.

   Agli inizi della primavera del 1916, i Comandi italiani incominciano a ricevere notizie sul concentramento  di due Armate austro-ungariche in Tirolo. Il Cadorna rimane scettico e ritiene quelle voci, divulgate per di più da disertori austriaci, o sedicenti tali,  una manovra del nemico per costringerlo a spostare forze da est a nord, indebolendo così il fronte isontino-carsico.

  Inoltre, l’Alto Comando ritiene alquanto improbabile l’avanzata contemporanea di due Armate  attraverso le strette valli trentine e pressoché  impossibile una loro offensiva su un fronte montuoso di circa 70 Km., tra la Val d’Adige e la Valsugana.        In ogni caso, il Cadorna è sicuro di poter spostare rapidamente dal settore dell’Isonzo le forze necessarie per contrastare un’offensiva austriaca da nord.

      La Strafexpedition, pianificata in un primo momento per gli inizi di aprile, subisce una battuta d’arresto per le pesanti nevicate.

    Intanto le voci di una imminente offensiva austriaca dal Trentino si fanno sempre più insistenti tanto che, il 13 aprile, i quotidiani francesi e italiani riportano le cifre del concentramento austro-ungarico nel Tirolo: 157.000 soldati e 1200 cannoni,  contro 114.000 uomini e 850 cannoni  italiani. Lo schieramento austro-ungarico, oltre ai contingenti provenienti dal fronte russo, comprende anche reparti spostati dal fronte giuliano, che resta  presidiato solo da 195.000 uomini, un contingente che conta poco meno della metà delle forze italiane schierate in quel settore.

  Conrad, deve però appianare disaccordi sorti tra alcuni suoi generali , circa l’impostazione dell’operazione, fatto che rallenta l’offensiva e fa sfumare, in parte, il fattore sorpresa (cfr. Lawrence Sondhaus- Conrad contro Cadorna, Libreria Editrice Goriziana, 1^ ed. it.,2003).

  Cadorna, ancora scettico sulla consistenza delle forze nemiche e sull’imminenza di un attacco dal fronte nord, solo precauzionalmente fa avanzare la 15^ Divisione tra Borgo Valsugana e Levico, in una zona pericolosamente esposta e difficilmente difendibile, che consentirà al nemico di sorprendere le truppe italiane in capisaldi troppo avanzati.

   Nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1916 l’artiglieria austro-ungarica inizia un bombardamento a tappeto  contro la linea di difesa italiana, che coglie impreparati molti comandi locali. L’artiglieria italiana, al di là della sua inferiorità, non reagisce  in molti settori perché è stato impartito l’ordine di  agire solo a fronte di ordini diretti da parte del Comando Supremo, ordini che però, per carenze nella linea di comando, non arrivano. Infatti, sul fronte est, molti ufficiali si trovavano in  licenza, prima di un’ offensiva sul Carso che sarebbe scattata da lì a poco.

   Le forze austro-ungariche possono quindi avanzare con una certa facilità. L’ 11^ Armata del Generale Dankl  va ad occupare il settore occidentale del fronte per sferrare poi l’attacco sulla direttrice Rovereto-Schio-Vicenza;  il XX Corpo , schierato sul fianco orientale dell’Armata, al comando dell’Arciduca ereditario Carlo (diverrà Imperatore sei mesi dopo, alla morte del prozio Francesco Giuseppe), deve puntare su Arsiero, mentre l’ala destra della 3^ Armata del Generale  Kövess  deve procedere verso Asiago e l’ala sinistra  avanzare in Valsugana e discendere lungo il  Brenta fino a Bassano.

  Il  giorno prima dell’attacco, l’Arciduca Carlo emana una direttiva in cui esorta ad operare un’avanzata prudente, al fine di contenere il più possibile le perdite umane (cfr. L. Sondhaus, op. cit.).

   Carlo non cesserà mai, per tutto il corso della guerra, prima nella sua posizione di  Generale e soprattutto poi, come Imperatore, di mettere in atto tutto quanto in suo potere per alleviare le sofferenze dei soldati, che considera prima di tutto Uomini e non semplici pedine da sacrificare senza troppi scrupoli.

  Inizia quindi la “Battaglia degli Altipiani” e, sotto la pressione austriaca, la linea di difesa italiana viene fatta arretrare. Il 10 giugno gli austriaci invadono l’Altipiano di Asiago, travolgono la resistenza nemica, e proseguono in direzione della pianura.

  A fine mese però, gli attacchi austro-ungarici  si susseguono in modo scoordinato e frammentario; gli attaccanti trovano sovente valli bloccate da formazioni italiane, in numero doppio delle loro. Tra il 24 e il 26 giugno le forze imperiali, anche a causa delle ripercussioni seguite al crollo austro-ungarico del giorno 4 sul fronte russo, sono costrette ad arretrare, abbandonando Asiago e Arsiero.

  Anche se la manovra di Conrad è praticamente naufragata, le operazioni si protraggono con una certa energia, nell’errata convinzione che, in ogni caso,  la vittoria sugli italiani sarebbe stata questione di tempo.

  Nel corso dell’offensiva austriaca  vengono arrestati gli irredentisti Fabio Filzi e Cesare Battisti, sudditi austriaci arruolatisi nel Regio Esercito italiano (il Battisti è anche Deputato al Parlamento di Vienna), che il 12 luglio vengono giustiziati a Trento  per alto tradimento.

  Benché la controffensiva italiana approdi a risultati solo parziali (in territorio italiano rimangono tre Corpi  austro-ungarici),  la VI Battaglia dell’Isonzo, porta alla conquista di  Gorizia il 9 agosto.

   La “Strafexpedition”  è costata, tra morti, feriti, malati e prigionieri,  43.000 uomini all’Austria  e 76.000 all’Italia.

   L’ offensiva austriaca, oltre a far emergere tutte le carenze dell’apparato militare italiano, provoca, di conseguenza,  anche una crisi di governo a  Roma.

  Salandra è costretto a dimettersi sotto i pesanti attacchi di coloro che gli contestano il modo con cui ha trascinato l’Italia in guerra e la superficialità dimostrata nel prevedere la fine del conflitto entro i primi mesi del 1916.  Vengono così rivalutati i moniti,  pienamente giustificati, del neutralista Giolitti (cfr. Denis Mack Smith- Storia d’Italia 1861-1969, ed. Laterza,1969).

     A Salandra subentra Paolo Boselli, personaggio di scarsa energia ma ritenuto in grado di coagulare forze politiche di diversa estrazione, che forma un Governo di coalizione nazionale in cui entrano anche i socialisti riformisti Bissolati e Bonomi e  il cattolico Meda.

  Entrato in carica il nuovo Governo il 18 agosto, il  successivo giorno 25 l’Italia dichiara guerra anche alla Germania.

Luigi Pedrone

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