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"PASSI IN AVANTI NELLA CRISI LIBICA, MA IN POLITICA ESTERA MANCA ANCORA TANTO ALL'ITALIA". Intervista ad Alberto Negri, inviato de Il Sole 24 ORE. A cura di Gennaro Grimolizzi

Alberto Negri è inviato del Sole 24 Ore e da circa trent’anni segue con attenzione e competenza le principali crisi internazionali, con un occhio di riguardo al Medio Oriente, senza tralasciare l’Iran. Secondo Negri, l’Italia è riuscita ad avere un ruolo significativo nel contrasto all’immigrazione clandestina dalle coste libiche. La strada, però, è lunga e prima di contare in Europa come Francia e Germania occorre avere una visione in ambito internazionale. Fino a quando il provincialismo dei partiti sarà dominante, ogni tentativo di rafforzamento delle politiche estere sarà vano.

Dottor Negri, l’Italia si è ritagliata un ruolo importante dopo il vertice di Parigi di qualche giorno fa sulla Libia o il nostro Paese continua ad essere la cenerentola europea nella gestione della crisi migratoria?

«L’incontro di Parigi ha sancito sicuramente un successo per la linea italiana, che è stata, in qualche modo, ingessata dalla Merkel, da Macron e dagli altri partner europei. Il motivo di questo successo è molto semplice: nessuno dei leader poc’anzi citati ha una soluzione affidabile e concreta per la Libia, tenendo presente che la Francia, responsabile dei bombardamenti contro Gheddafi nel 2011, ha poi sostenuto il generale Haftar a scapito del governo di Al Serraj. È chiaro che questa situazione, con gli accordi intervenuti tra Roma e Tripoli per contenere i flussi dei migranti e gli incontri tra il ministro dell’Interno Minniti ed i capi tribali libici, hanno evidenziato dei passi in avanti per il nostro Paese. Oggi, inoltre, si fa affidamento sull’Italia in Libia anche per un motivo ben preciso. Si stanno per aprire altri fronti. Penso a quello in Turchia, dove Erdogan tiene sotto ricatto la Germania e l’Unione europea per quanto concerne la gestione del flusso dei migranti della rotta balcanica. Non bisogna poi neppure dimenticare il referendum del Kurdistan iracheno del 24 settembre prossimo, che potrebbe innescare una nuova esplosione regionale. Questa situazione di tensione a fronte di alcuni risultati raggiunti dall’Italia ritorna utile proprio per il nostro Paese e per la stabilizzazione della Libia».

Il flusso di migranti dalla Libia rappresenta un serio pericolo per l’Italia? Si possono mimetizzare anche molti terroristi?

«Stabilizzare la Libia e la fascia dei Paesi del Sahel, come il Ciad, la Nigeria, il Mali, appartiene ad una strategia anche antiterroristica, oltre che finalizzata a contenere i flussi migratori. In quell’area si sono insediati gruppi di Al Qaeda ma anche gruppi affiliati all’Isis, che hanno destabilizzato sanguinosamente tutta la regione. L’attentato di Barcellona dimostra che l’arrivo di jiadisti marocchini costituisce una minaccia per l’Europa. La stabilizzazione della Libia fa parte di un tassello fondamentale per la regione proprio in funzione antiterroristica. Non è un caso, vale la pena sottolinearlo, che Macron nello scorso luglio sia andato in Mali per costituire una task force di quattromila uomini in funzione di stabilizzazione contro il pericolo terrorismo».

Sul fronte siriano possiamo parlare di una vittoria di Assad contro l’Isis?

«Assad non poteva resistere senza l’aiuto degli Hezbollah libanesi, dei pasdaran iraniani e della Russia, intervenuta nel 2015. Diciamo che si tratta della vittoria di un asset della resistenza non solo nei confronti dell’Isis, ma, soprattutto, di una guerra per procura iniziata nel 2011 contro Assad in funzione dichiaratamente anti-iraniana. Una guerra per procura che tendeva in qualche modo ad abbattere il maggior alleato dell’Iran, l’unico Paese arabo che nel 1980 si schierò con Tehran quando Saddam Hussein attaccò l’Iran. La Siria è un Paese fondamentale per il rifornimento militare e logistico degli Hezbollah in Libano, che costituiscono per Israele una forte minaccia come dimostra la guerra del 2006. È evidente che Assad ha resistito. Lo ha fatto non solo contro l’Isis e non l’ha fatto da solo in una situazione ancora di grandissima incertezza. L’Isis ha arretrato dopo la caduta di Mosul, Raqqa è sotto assedio, ma non bisogna farsi illusioni. L’estremismo jihadista non finirà con la sconfitta militare dell’Isis, come, purtroppo, non finirà la destabilizzazione di un’intera regione che abbraccia l’Iraq, la Turchia, la Siria, l’Iran. Il referendum del Kurdistan iracheno del 24 settembre potrebbe far riesplodere un altro fronte con il coinvolgimento della Turchia e dell’Iran, alleati in questo momento contro l’indipendenza dei curdi. Il voto che si terrà fra qualche settimana, con la possibile dichiarazione di indipendenza, dopo il referendum, potrebbe riaccendere l’instabilità».

Il 2016 ed il 2017 sono stati caratterizzati dalle elezioni negli Stati Uniti ed in Francia. Si può già fare un primo bilancio delle politiche estere di Trump e Macron?

«È evidente che c’è una linea politica tendente in qualche modo a fare della Francia il Paese che cerca di guidare l’Unione Europea con la Germania. La Francia non ha la potenza economica della Germania, ma rispetto a quest’ultima gode di alcuni fattori fondamentali. Penso alla sua dotazione nucleare, l’unica rimasta in Europa dopo l’uscita dalla Ue della Gran Bretagna con la Brexit. La Francia è un interlocutore degli Stati Uniti e della Russia per il suo attivismo con missioni militari ed i suoi interessi nel Sahel. Macron cerca di approfittare dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea per ritagliarsi un ruolo di rilievo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Trump ha smentito se stesso. Aveva detto che forse era necessario un accordo con la Siria o addirittura con l’Iran per poter combattere il terrorismo e alla fine ha bombardato una base siriana e minacciato sanzioni all’Iran. Voleva negoziare con Putin e alla fine per colpa sua o per colpa di altri ha aperto un contenzioso e dato vita a tensioni con le rappresentanza diplomatiche dei due Paesi. Ha fatto in pratica il contrario di quanto detto lo scorso anno prima del voto presidenziale. Trump non sembra tanto un presidente sul pezzo ed in politica estera sta facendo non pochi errori. Non appare capace di portare qualcosa di innovativo, dopo aver suscitato grandi aspettative in campagna elettorale. Non si è mai visto un presidente americano che in pochi mesi ha dovuto cambiare i membri della sua amministrazione, facendoli fuori uno dopo l’altro. È un presidente sempre più debole».

La Russia trova un’autostrada in questo vuoto lasciato in politica estera dagli Stati Uniti?

«In realtà non c’è un vuoto della politica estera americana, bensì una conferma delle sue linee politiche. Si pensi al Medio Oriente e al sostegno all’Arabia Saudita. La Russia ha risorse economiche limitate e sicuramente il suo percorso è ancora lungo. Sull’autostrada che lei citava non può procedere a duecento chilometri orari ma a centoventi».

Tra qualche mese voteremo in Italia. Spesso la politica estera è ai margini dei programmi di coalizioni e partiti politici. Un partito o una colazione per avere credibilità che cosa dovrebbe proporre in politica estera?

«Intanto i politici italiani dovrebbero studiare e viaggiare. I nostri politici, a parte qualche eccezione, studiano poco e si recano poco all’estero. Dovrebbero cercare di darsi una cultura internazionale. Il fatto che la politica estera sia molto spesso ai margini dei programmi dei partiti non fa altro che denunciare un generale provincialismo italiano. I partiti riflettono in qualche modo quella che è la cultura scarsa di un Paese, che ha rivolto spesso poca attenzione alla politica estera. Questa è una situazione che dura da tanto tempo. Ero ricercatore all’ISPI nel 1981 e notavo più o meno le stesse cose tanti anni fa. Qualcosa è leggermente cambiato perché con alcuni conflitti e tensioni internazionali la politica estera ci è entrata in casa. Abbiamo spesso cercato di sostituire una politica estera nazionale con una politica estera incentrata sulle missioni militari in appoggio agli Stati Uniti o alla Nato, sperando che ci tornasse indietro qualcosa di utile. Molte volte non è stato così. Anche questo appartiene alla storia del nostro Paese. Non si cambia la storia dell’Italia in una elezione. Bisognerà dare sempre più attenzione alla politica estera e alla politica internazionale anche perché senza questa attenzione non so come il nostro Paese possa sopravvivere. L’Italia ha risorse energetiche limitate e deve procurarsele dall’estero. L’Italia vive di export sui mercati internazionali. Occorre avere ben chiara l’evoluzione del quadro politico internazionale. In caso contrario sarà difficile progredire».

P.S.: Al termine dell’intervista Alberto Negri ha ricordato il fotoreporter Raffaele Ciriello, ucciso a Ramallah il 13 marzo 2002 dalla raffica di mitra di un tank israeliano. Ciriello si trovava in Cisgiordania con un accredito del Corriere della Sera. «È stato un grandissimo fotografo e collega. Sempre informato su tutto. Ci siamo frequentati parecchio. Era una persona di grandissime qualità morali. Una persona che tutti ricordiamo sempre con grande commozione. È stato un grandissimo collega, ma anche un bravissimo compagno di vita. Una persona deliziosa. Quando è stato ucciso non ero in viaggio, mi trovavo a Milano. Ho conosciuto bene sia lui che Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan qualche mese prima di Raffaele»

A cura di Gennaro Grimolizzi

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