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CINA, LA PATRIA CHE NON SI DISTRAE. SI PREFERISCE NON PARLARE DEL PROPRIO PAESE IN PATRIA E ALL'ESTERO. Di Teresa Migliardi

Un ritratto del Dragone nella ricerca di Claudia Astarita dell’Istituto Studi Politici “SciencesPo” di Parigi.

Molti giovani cinesi, espatriati per specializzarsi in studi superiori all’estero, sono esposti a informazioni, interpretazioni e punti di vista in grado di allargare il loro bagaglio culturale sulla Cina. E’ una contaminazione che li porta ad assumere un atteggiamento più aperto, e potenzialmente anche autocritico, nei confronti di loro stessi e del loro mondo (la Cina).

Questo aspetto, molto particolare, è stato indagato nella ricerca Overseas Students as Agents of Cosmopolitanism and Globalization in Asia (A Melbourne Study of Students from China) che ha coinvolto a Melbourne un gruppo di 19 studenti cinesi in tre cicli d’interviste realizzate nell’arco di nove mesi.

Siamo in grado di riportare alcune considerazioni emerse dallo studio per gentile conces-sione di Claudia Astarita, 38 anni, originaria di Carpi, specializzata in Relazioni interna-zionali dell’Asia orientale. La studiosa vive a Parigi e insegna all’Istituto di Studi politici Sciences Po, l’istituzione storica per la formazione dell’élite politica e amministrativa fran-cese ed europea, dove si sono formati cinque presidenti della quinta Repubblica francese, undici primi ministri, nonché numerosi capi di Stato esteri, personalità politiche, diploma-tici e alti funzionari. Claudia Astarita, inoltre, è anche una ricercatrice del nostro Ce.Mi.S.S. (Centro Militare di Studi Strategici).

La proposta di partecipare all’indagine era stata fatta a 60 studenti, ma solo in 19 hanno accettato. Fra coloro che hanno rifiutato, solo due hanno fornito una spiegazione: temeva-no di compromettere la loro futura sicurezza in Cina.

In un primo momento, i ricercatori di Melbourne hanno riscontrato nel gruppo dei 19 gio-vani cinesi una forte difficoltà a confrontarsi sul tema della Cina con interlocutori non ci-nesi. La preoccupazione era quella di potersi ritrovare successivamente in qualche situa-zione difficile per avere fornito informazioni sul loro paese.

In seconda battuta, insorse una piccola difficoltà, dato che la Cina premia l’apprendimento mnemonico piuttosto che quello critico (il passaggio delle informazioni fra docenti e stu-denti in Cina avviene, infatti, di preferenza mediante la memorizzazione) .

Questa scelta d’insegnamento è in parte dovuta all’estrema difficoltà del mandarino, che richiede un enorme sforzo d’apprendimento per imparare a esprimersi in modo corretto.

Nonostante queste difficoltà, i 19 studenti cinesi hanno giudicato il fatto di potere parlare della Cina in un contesto diverso dal solito un’opportunità da non perdere, per cui si sono sottoposti a due interviste a porte chiuse, della durata di 2 ore l’una, per parlare di Cina con persone non cinesi che però – come hanno sottolineato – “rispettano la Cina”.

«Trovare qualcuno con cui confrontarsi sulla Cina – hanno detto – nella Repubblica popola-re, ma anche all’estero, è molto difficile». Poi, hanno aggiunto che sebbene siano cresciuti, i cinesi adulti, compresi i famigliari più stretti, li trattano spesso come bambini e non vo-gliono parlare con loro di argomenti consideratinotizie controverse.

«A scuola nessuno parlava mai del Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale – ha raccontato un intervistato -. I miei compagni di altre sezioni hanno letto al riguardo solo poche righe sui libri di testo ufficiali. Io no. La mia insegnante ci raccontò gli orrori dell’epoca facendo riferimento a ciò che aveva vissuto lei stessa».

«E se facevo delle domande sulla Rivoluzione Culturale – ha aggiunto un altro ragazzo – la mia insegnante mi congelava con lo sguardo e rispondeva che non c’era altro da aggiunge-re, non avendo più senso continuare a parlarne oggi».

Tutti gli intervistati hanno ammesso di sentirsi sufficientemente a proprio agio solo con pochi amici fidati, dato che in famiglia, perlopiù, non vale nemmeno la pena d’iniziare una conversazione. Lo stesso dicasi per la rete e i social: troppo pericolosi.

Una domanda significativa è stata: «Come avete scoperto cos’è successo a Tienanmen?”. La risposta unanime del gruppo: “Da ragazzi stranieri conosciuti all’università».

È da tenere presente, però, che gli intervistati hanno sempre sottolineato che: “I non cinesi guardano alla Cina in maniera strana, pensando di conoscerla anche se non ci sono mai stati”.

Proseguendo nell’interessante ricerca di Claudia Astarita e degli altri ricercatori, emerge comunque che nessuno degli studenti cinesi del gruppo ha mai definito la Cina un regime oppressivo, né l’ha mai criticata in maniera netta. Convinti nella buona fede delle azioni in-traprese da Pechino ritengono che “se ci sono stati degli errori può essere accaduto per fretta, inesperienza o per avere ricevuto consigli sbagliati”.

«Quando ho saputo di Tienanmen – ha spiegato un’intervistata – mi sono sentita tradita. Tornata in Cina ho portato con me delle prove, ma esclusi i miei amici più cari, nessuno mi ha creduto. E io continuo a non capire a chi vadano attribuite le responsabilità di quel massacro». Così un’altra giovane, fermamente incredula: «Le ricostruzioni che ho visto mi sono sembrate tutte assurde. L’esercito non poteva essere sceso in piazza contro gli studen-ti. Potete spiegarmi voi cos’è successo per davvero?».

«Io, una volta che ero tornato in Cina – ha riferito un altro – ne ho parlato con mio padre. Allora lui mi ha raccontato della sua esperienza nel 1989, quand’era studente universitario a Pechino. Restò in piazza fino all’arrivo dei carri armati. Però, ha concluso, non me l’aveva mai detto per non influenzarmi con i suoi errori. Nella Cina di oggi devi solo pensare a te stesso e alla famiglia che un giorno costruirai: non c’è nulla di più importante, ha concluso mio padre».

Un’altra sezione della ricerca di Melbourne riferisce, invece, del controllo da parte di Pe-chino sui giovani espatriati, un “fiato sul collo” esercitato attraverso le Ambasciate e i Con-solati all’estero, che a loro volta si coordinano con le associazioni studentesche cinesi.

Dall’inizio del 2017, in Australia, dove gli studenti cinesi sono numerosi, è stato registrato un numero crescente di denunce da parte dei singoli docenti, i quali dicono di trovarsi di fronte a giovani cinesi che non accettano di partecipare ai dibattiti per il timore di essere spiati da altri corsisti cinesi, dai quali ricevono minacce di essere denunciati alle autorità competenti per sfacciato comportamento anticinese.

Teresa Migliardi

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