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PORTE APERTE ALLA MATERNITÀ SURROGATA?. Di Francesco Mario Agnoli

Tanto nello scrivere quanto nel commentare una sentenza  è opportuno, per  capire subito di  che  si tratta, partire dal fatto. Tanto più quando il commento avviene in sede diversa da quella, propria, di una rivista giuridica ed è rivolta anche ai non addetti ai lavori con conseguente minore rilievo delle osservazioni eccessivamente tecniche. Nel caso il fatto  è quello di una coppia di cittadini italiani,  in quel momento non coniugati, che, recatisi all’estero per ricorrere alla pratica, in quel paese consentita, della maternità surrogata  attraverso ovodonazione, hanno entrambi riconosciuto il bambino come proprio figlio  naturale e, una volta rientrati in patria, hanno ottenuto la trascrizione del certificato di nascita formato all’estero.  Fin qui tutto sembrava essere andato liscio anche per la diffusa  convinzione  che per chi segue  questa strada per soddisfare il desiderio di un figlio a qualunque costo l’ostacolo principale sia costituito dalla trascrizione dell’atto di nascita. Nel caso della coppia milanese non è andata così, perché il riconoscimento  effettuato dalla  supposta madre è stato impugnato per mancanza di veridicità ai sensi dell’art. 263 del codice civile (nessun problema per il marito – nel frattempo è intervenuto il matrimonio – del quale si è accertata l’effettiva paternità biologica attraverso l’esame del DNA).

  Accogliendo il ricorso,  il Tribunale ordinario  di Milano  ha dichiarato  che il minore (rappresentato dal curatore speciale nominatogli dal Tribunale per i minorenni della stessa città) non è figlio della donna che lo ha riconosciuto. Questa  però, pur non avendo contestato  la realtà dei fatti,  non si è rassegnata e ha impugnato la decisione davanti alla Corte d’Appello, che, a sua volta,  ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31, 117/1° comma (quest’ultimo in relazione  all’art. 8 della Convenzione europea  dei diritti dell’uomo) nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente al suo interesse.   Va detto che i giudici della Corte di Appello, pur consapevoli che “tale questione risulta estranea alla vicenda in esame, in quanto la surrogazione di maternità è avvenuta al di fuori  di un contesto relazionale e non sarebbe ravvisabile una condizione di libertà della donna che ha portato a termine la gravidanza” (in  parole povere  l’affitto dell’utero è stato mercenario), ci hanno tenuto  a far sapere (a futura memoria?) di  essere  contrari al totale divieto  della maternità surrogata. Difatti – riporta in narrativa la Corte costituzionale – “quanto al divieto di maternità surrogata previsto dall’art. 12 della legge 19/2(2004 n. 40 (norme in materia di procreazione medicalmente assistita), il giudice a quo ritiene  che lo stesso potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali, laddove riferito ad ipotesi di gestazione “relazionali”o “solidaristiche”, non lesive della dignità  della donna, né riducibili alla logica  di uno scambio mercantile, ma caratterizzate da intenti di pura solidarietà”.

   Comunque la Corte costituzionale, dopo avere precisato che il giudizio non riguarda  né la trascrivibilità  di atti di nascita formati all’estero (nella fattispecie la trascrizione era già avvenuta e non era stata impugnata) né la legittimità del divieto  della maternità surrogata,  ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 263, essendo errato il presupposto  che tale norma non consenta “di tenere conto in concreto, dell’interesse del minore a vedersi  riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita”. Difatti “pur dovendosi riconoscere un accentuato favore dell’ordinamento per la conformità dello status alla realtà della procreazione, va escluso che  quello dell’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da  sottrarsi a qualsiasi bilanciamento”. Nei casi di divergenza tra identità genetica e identità legale la necessità del bilanciamento  tra esigenza di accertamento della verità e interesse del minore è confermata, ad avviso della Corte, dall’evoluzione sia normativa che giurisprudenziale.  Difatti l’art. 263  codice civile  è stato modificato  dall’art. 28 del  d.lgs. n. 154/2013 nel senso di limitare l’imprescrittibilità esclusivamente  all’azione esercitata dal figlio a tutela  dell’  “interesse primario ed inviolabile dei figli all’accertamento della propria identità e discendenza biologica”, mentre per tutti gli altri soggetti si è introdotto un  termine di decadenza (analogamente per l’azione di disconoscimento di paternità di cui all’art. 244 cod. civ.).

   Nello stesso senso la giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha riconosciuto l’immanenza  dell’interesse del minore nell’ambito delle azioni volte alla rimozione  del suo status filiationis. Nelle  decisioni n.ri 112/1997,  170/1999, 322 /2011 e  7/2012 si trovano sì affermazioni sul particolare  valore della verità biologica e l’auspicio  di una tendenziale  corrispondenza tra certezza formale e verità naturale,  ma accompagnate  dal riconoscimento  “che anche l’accertamento della verità biologica fa parte della complessiva valutazione rimessa al giudice, alla stregua di tutti gli altri elementi che, insieme ad esso, concorrono a definire la complessiva identità del minore e, fra questi, anche quello, potenzialmente confliggente, alla conservazione dello statu  già acquisito”.  Rammenta la Corte costituzionale come nella sua  sentenza n. 217/1997, riguardante l’ autorizzazione a proporre l’azione di disconoscimento da parte del minore, si  affermi “compito  precipuo del tribunale per i minorenni valutare se la modifica dello status del minore risponda al suo interesse e non sia per lui di pregiudizio, così come contemporaneamente occorre anche verificare, sia pure con sommaria delibazione, la verosimiglianza del preteso rapporto di filiazione, dovendosi garantire il diritto del minore alla propria identità”. Viene altresì ricordato che  “a conferma del rilievo giuridico della genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica, vi è anche l’espresso riconoscimento, da parte di questa  Corte  che il dato della provenienza genetica non costituisce  un imprescindibile requisito della famiglia (sentenza n. 162/2014)”. Nella stessa direzione si muove la giurisprudenza della Cassazione (sentenze n.ri 13638/2013, 26767/2016, 8617/2017), escludendo  che “il favor veritatis costituisca un valore  di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque, atteso che l’art. 30 Cost., non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale”.

    Si deve, quindi  procedere alla valutazione comparativa degli interessi in gioco, perché “se  non è costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sull’interesse del minore, va parimenti escluso che  bilanciare quell’esigenza con tale interesse comporti l’automatica cancellazione dell’una in nome dell’altro”. Un bilanciamento che  in alcuni casi viene operato  dalla legge, “come accade con il divieto  di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa” o, all’opposto, con l’imporre “l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata”. In tutti gli  altri è affidata al giudice la comparazione fra l’interesse del minore e quello alla verità, interesse quest’ultimo  che può avere  “anche natura pubblica (ad esempio perché relativa a pratiche vietate dalla legge, quale è la maternità surrogata, che  offende in modo intollerabile  la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l’interesse del minore  nei limiti consentiti da tale verità”.

   La decisione finale poteva riguardare  solo la fondatezza o infondatezza  della questione di costituzionalità proposta, ma queste parole (di evidente  risposta a quelle della Corte d’Appello) lasciano intendere come la Corte ritenga che si debba tenere conto delle modalità del concepimento e, quindi, del disvalore attribuito alla pratica della maternità surrogata. Una considerazione alla quale segue il suggerimento del ricorso allo strumento dell’adozione di cui  all’art. 44 della legge n. 184/1983  –  presa in esame , ma con tendenza ad escluderla,   anche dal giudice remittente e dalle parti -,  che  consentirebbe di tenere conto tanto della “pubblica” esigenza di verità e della conseguente  grave inopportunità di un riconoscimento  da parte del genitore che ha tenuto una condotta  ritenuta reato dalla legislazione nazionale, quanto dell’interesse del minore. Difatti il giudizio comparativo  deve “tenere conto di variabili  molto più complesse della rigida alternativa vero o falso.  Tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi col minore e quindi della condizione identitaria già da esso acquisita, non possono non assumere oggi particolare rilevanza, da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’altro, la  presenza di strumenti legali che consentano  la costituzione di un legame giuridico  col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore un’adeguata tutela”.

Francesco Mario Agnoli

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