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MISHIMA YUKIO: LA LOGICA DELL’AZIONE. Di Daniela Errico

Yukio Mishima

“Ma esiste qualcosa, in questa nostra fragile vita, che più di un fuoco d’artificio possegga l’eternità dell’istante?”[1]

È con queste parole che Mishima Yukio, giunto ormai alla fase conclusiva di una lunga e travagliata elaborazione della propria esistenza, terminò uno dei suoi ultimi scritti, Introduzione alla filosofia dell’azione (1969-70), pienamente consapevole di aver già trovato una risposta a questo suo quesito.

La personalità poliedrica dell’autore non permette di formulare una motivazione univoca dietro al gesto estremo del seppuku, informalmente conosciuto come harakiri, in quanto frutto del convergere di varie sfaccettature della sua persona che, a pari merito, hanno giocato un ruolo importante nell’adempimento del suo destino, confluendo nell’irripetibile istante della morte.

La concretizzazione della sua fine si rivelò essere non solo il mezzo più consono all’affermazione dei suoi ideali, ma soprattutto la soluzione ad una situazione di dissidio interiore scaturita dalla percezione di una realtà, quella del dopoguerra, a cui Mishima non seppe aderire appieno.

Nel corso della sua carriera letteraria, attraverso le parole, ebbe modo di creare una condizione esistenziale, seppur illusoria, nella quale perseguire le proprie esigenze espressive legate a valori appartenenti ad un mondo ormai estinto. Ciò non fece altro che renderlo passivo al cospetto dell’ambiente circostante al quale non sentì di appartenere e le parole contribuirono ad alimentare questo senso di alienazione rivelandosi, infine, elemento di corrosione della autenticità dell’esistenza.

La presa di coscienza di tale condizione lo indusse a lasciarsi trasportare sempre più nel fiume dell’azione, abbandonando il mondo delle parole per aderire ad un altro tipo di linguaggio, quello del corpo, come mezzo di percezione della realtà.

Soltanto un corpo solido e muscoli possenti potevano testimoniare la prontezza dell’uomo nell’affrontare il proprio destino.

I muscoli non sono solo carne ma soprattutto forza e dare forma ad essi significa dar vita ad un’energia impetuosa. Questo è ciò che Mishima definì arte, l’energia che si percepisce all’apice di un’azione, che sia un pugno o un colpo di spada, quell’ombra che trascende il mondo del linguaggio, l’essenza delle cose.

Come una spada sguainata non può essere riposta senza aver adempiuto al suo scopo, nel momento in cui un’azione ha avuto origine non può più esser interrotta. Ogni movimento deve tendere verso l’obiettivo che si è prefissato di raggiungere, senza il quale risulterebbe sprecato e banale.

L’intera cogitazione dell’azione culmina nell’idea di bellezza. Quella bellezza fulminea che si materializza all’apice dell’azione è resa tale dall’impossibilità di essere ripetuta poiché in essa convergono tutte le energie che, come in un fuoco d’artificio nel momento dell’esplosione, si dileguano generando uno spettacolo inimitabile in quanto “in ogni cosa esiste un principio ed una fine: una volta alzato il sipario sull’azione, si dovrà prima o poi calarlo”.[2]

Quell’istante presente nell’azione prende valore se in esso si cela la morte, conferendo dignità al corpo che l’affronta. La morte, eterno dilemma dell’immaginazione, si configura come elemento cardine dell’estetica mishimiana, prospettandosi come unica forma di constatazione dell’esistenza.

Questo concetto viene esplicato attraverso una metafora carica di significato e, in un certo senso, profetica perché rivelatrice delle intenzioni di Mishima su quella che fu la sua fine:

”qui c’è una mela sana (…) non si scorge nulla del suo interno. Il torsolo dentro la mela, imprigionato dalla polpa, si smarrisce in quella oscurità livida e, tremando d’impazienza, aspira a controllare con i propri occhi se la mela è perfetta. La mela esiste sicuramente, ma il torsolo non è abbastanza convinto e, se le parole non glielo garantiscono, non ha altra possibilità che verificarlo con i propri occhi. (…) Ma c’è un unico metodo per risolvere questa contraddizione: che vi si affondi un coltello e che, spaccata la mela, il torsolo sia esposto alla luce, la stessa che illumina la buccia rossa.”[3]

La coscienza di sé vuole vederci chiaro, ambisce a conoscersi non più mediante l’ausilio delle parole o dei muscoli. Per soddisfare questo suo desiderio deve necessariamente sacrificare l’esistenza e nella distruzione di essa finalmente percepisce l’unione del corpo e dello spirito.

Ma vi è un ostacolo: come si può giungere alla realizzazione di questo obiettivo in tempo di pace? Mishima provava eccitazione continua nel mettere sotto sforzo il suo corpo, quasi a ricreare situazioni che più si avvicinavano all’idea di morte. Ma per quanto ancora ne avrebbe tratto appagamento?

La scelta di una fine per mezzo del seppuku risiede nel significato stesso della parola. È una dimostrazione di sincerità ed onestà, in quanto si credeva che l’autenticità di questi sentimenti dimorassero all’interno delle viscere. Chi compie questo gesto è consapevole di andare incontro ad una morte molto dolorosa, ma è anche consapevole del poter attestare con essa il proprio coraggio.

Con la pratica del suicidio rituale Mishima mise in atto quella che egli considerava la fine più adeguata a far sì che si adempisse il suo ideale estetico.

Il suo non fu un gesto avventato, risultato di degenerazione mentale o politica , ma un gesto a lungo maturato da un uomo che aveva a cuore il proprio Paese e i valori ad esso associati tanto da morire “non solo secondo lo stile giapponese tradizionale, ma per la salvaguardia delle peculiari tradizioni giapponesi”.[4]

Daniela Errico

[1] Mishima Yukio, Introduzione alla filosofia dell’azione, in Lezioni spirituali per giovani samurai. 
[2] Ivi.

[3] Mishima Yukio, Sole e acciaio
[4] Henry Miller, Riflessioni sulla morte di Mishima

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