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COSA RESTERÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE? Di Alessandro Voglino.

Secondo Mao Tse Tung l’Imperialismo era una “tigre di carta”. Forse il capitalismo globalizzato del XXI secolo non lo è, ma certamente è un gigante dai piedi d’argilla. Ce lo sta dimostrando plasticamente in questi giorni e in queste settimane l’emergenza da Coronavirus, insieme ai suoi effetti sul sistema economico globale. Paradossalmente, mentre la pericolosità in presenza di eventi imprevisti del sistema finanziario e la sua intrinseca, eccessiva volatilità, non hanno sorpreso nessuno, considerando la genesi e gli effetti della crisi del 2008, quello che ha colto più di sorpresa tanti profeti e sostenitori della irreversibilità dell’attuale modello di sviluppo è stata la repentina messa a nudo della inquietante fragilità del attuale sistema capitalistico globalizzato sotto il profilo del suo assetto industriale. Il principio base su cui si fonda la Globalizzazione è che la creazione di un grande Mercato mondiale senza barriere, consente alle aziende manifatturiere di creare filiere produttive flessibili, cioè di sostituire facilmente un fornitore – o un componente – ad un altro secondo le convenienze e di avvantaggiarsi degli esiti di una divisione del lavoro su scala globale. Il concetto di fondo è che la specializzazione produce più efficienza che – a sua volta – si traduce in più crescita. Peccato che l’inevitabile effetto collaterale della Globalizzazione sia quello di creare un complesso sistema di interdipendenza. Lo hanno scritto in maniera mirabile Henry Farrell e Abraham Newman su Foreign Affairs del 16 marzo: ” Le aziende si inseriscono in filiere produttive globali, dando vita a una intricata rete di network produttivi che legano tutta insieme l’economia globale… Questo ha spinto verso forme di specializzazione che talora rendono problematica la sostituzione dei fornitori, specie quando si tratta di prodotti o capacità costruttive inusuali. Inoltre, man mano che la produzione è diventata globale, anche i diversi Paesi sono diventati interdipendenti, perché nessuno di essi è in grado di controllare tutti i prodotti e tutti i componenti che sono necessari al funzionamento della sua economia. Le economie nazionali sono state sussunte in un ampio network globale di fornitori”. A questo si aggiunga che tale assetto produttivo ha generato la visione secondo la quale le riserve di magazzino (di materie prime o di prodotti finiti) sono un inaccettabile immobilizzo di capitale e il costo stesso delle strutture per lo stoccaggio un inammissibile spesa con conseguente diminuzione del profitto, per cui ormai a livello planetario si pratica la cosiddetta produzione just-in-time. Il che va benissimo finché non succede nulla al di fuori dall’ordinario, ma di fronte a un evento inatteso e di imponderabili dimensioni come una epidemia può – esattamente come sta succedendo con il Coronavirus – generare una improvvisa e irrimediabile penuria di beni essenziali, dando vita a una competizione al limite dell’ostilità fra le diverse Nazioni. La recentissima storie di mascherine e respiratori per la terapia intensiva rende l’idea molto meglio di quanto non potrei fare con qualunque altra esemplificazione. Le scorte se non ci sono non si possono inventare e la riconversione di molte filiere produttive non è né semplice né rapida. L’assetto economico/ produttivo globalizzato, al fine di massimizzare i profitti, ha in realtà creato veri e propri “colli di bottiglia” che minano l’efficienza e la stessa capacità produttiva a livello globale se le labili filiere produttive mondializzate si interrompono per effetto di un evento eccezionale. Proprio in questi giorni balza agli occhi il caso clamoroso della microcomponentistica elettronica, i cui problemi stanno generando un crollo del 50% nella produzione di laptop e del 12 % in quella di smartphone, ma che sta ostacolando anche la produzione automobilistica di tutta Europa attraverso la crisi di un singolo produttore, MTA (Advanced Automotive Solutions). Lo stesso, ed è assai più grave, ci segnalano sempre Farrell e Newman su Foreign Affairs, sta succedendo in un campo assai più delicato come quello dei reagenti che sono una componente essenziale dei test di laboratorio per la individuazione di RNA virale: la produzione di questi reagenti è sostanzialmente in mano a 2 sole Società, la olandese Quiagen (in realtà di proprietà del colosso americano Thermo Fisher Scientific) e la Roche attraverso i suoi laboratori basati in Svizzera. Nessuna delle due è stata ovviamente in grado di rispondere con il just-in-time all’improvvisa impennata della domanda generata dall’ emergenza Corinavirus, con la conseguenza che la produzione dei tamponi, specie negli Stati Uniti, è stata ritardata. E sappiamo bene quale sia la situazione in quel paese. A ciò si aggiunge che l’ assetto economico della Globalizzazione è assolutamente inadatto ad affrontare una crisi con caratteristiche del tutto anomale come quella in corso, cioè una crisi che ha colpito contemporaneamente il lato dell’offerta (con fabbriche e intere filiere che chiudono per rallentare il contagio) e quello della domanda (un mercato di consumatori chiusi in casa si restringe per sua natura, in più migliaia di prodotti e servizi diventano inutili o addirittura indisponibili dall’intrattenimento alle crociere, o richiesti a un quarto o un quinto dei volumi normali, dal trasporto aereo e a quello pubblico, alla vendita dei carburanti). In uno scenario del genere interventi sulla liquidità o sui prezzi sono semplicemente inutili. Se mai serviranno a tenere artificialmente in vita le bolle su cui si fonda la finanziarizzazione globale. Se la crisi attuale andasse oltre un certo orizzonte temporale si innescherebbe addirittura un ritorno verso economie autosufficienti, cioè l’esatto contrario della Globalizzazione. Il simbolo di questo rischio, guardando solo alla situazione del maggiore contributore mondiale alla crescita economica planetaria (11% del totale) cioè agli Stati Uniti, è la crisi contemporanea delle esportazioni di gas e petrolio nel primo trimestre dell’anno (specie verso la Cina) con tracollo dei prezzi e fallimenti a catena delle società di estrazione e la contemporanea crisi di tutto il sistema dei trasporti, non solo interni, ma anche verso il resto del mondo. Insomma, l’economia globalizzata non funziona affatto così bene come ci hanno raccontato fino all’altro giorno. E’ in realtà una costruzione fragile, inadatta ad affrontare crisi globali. Un qualcosa che andrà attentamente ripensato nel prossimo futuro. Anche perché emerge con altrettanta evidenza che il suo effetto sociale è stato negativo. In molti casi addirittura devastante. E da questo punto di vista davvero il Re è nudo. Prendiamo come esempio un gigante economico come gli Stati Uniti. Ebbene, 20 anni di Globalizzazione selvaggia (quella per intenderci che ha portato alla delocalizzazione del 90% delle produzioni di beni e contro cui si batte il Presidente Trump, per ciò fino a ieri trattato come un eccentrico buffone) hanno creato una situazione socialmente drammatica. Già oggi, cioè prima che si avvertano gli effetti della crisi da Coronavirus, il 30% – cioè un terzo! – della popolazione americana, è indebitata o dispone di mezzi economici personali pari a 0. Il che significa niente denaro, niente lavoro e nessun accesso ai servizi sanitari. E’ vero che come reazione alla crisi in corso il governo americano ha già messo in campo una maxi manovra da 2000 miliardi di dollari, rivolta soprattutto ai soggetti più deboli, ma dobbiamo avere ben chiaro che questo va IN SENSO ESATTAMENTE CONTRARIO alla Globalizzazione e alle politiche raccomandate dall’Washington Consensus, se è vero come è vero che gli Stati Uniti sono uno dei paesi più indebitati della terra: oltre 23.000 miliardi di dollari. Alessandro Voglino è un dirigente della Pubblica Amministrazione e ha collaborato per anni con la cattedra
di Geografia Politica dell’Università La Sapienza di Roma. Suoi saggi di geopolitica sono apparsi con UTET e ARACNE. Collabora assiduamente con il Centro di Studi Politici e Strategici Machiavelli.

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