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LA MASCHERINA ALL’APERTO: OBBLIGO O CAUSA DI GIUSTIFICAZIONE? Di Luca De Netto

Il Decreto Legge n. 125 del 7 ottobre 2020  ha previsto, in forme non del tutto esplicite e chiare, la possibilità dell’obbligo di utilizzo di “dispositivi di protezione delle vie respiratorie” anche all’aperto, e ciò al fine, si presuppone, di limitare la diffusione della circolazione del virus SARS-CoV-2. Riservando poi ad una serie di DPCM la presunta “obbligatorietà”.

In realtà, già il citato Decreto Legge contiene una norma transitoria davvero peculiare, che infatti prevede che “continuano ad applicarsi” le norme sulle mascherine introdotte…dallo stesso decreto legge! E allora, delle due l’una: o il Decreto del 7 ottobre introduce ex novo, oppure richiama norme che dovrebbero “continuare ad applicarsi”, cosa ovviamente impossibile se le predette disposizioni sono state introdotte proprio dal decreto legge.

Invero, detto atto posto in essere dall’esecutivo, si aggiunge e si sovrappone ad una serie di ordinanze emanate da alcuni governatori che, anziché intervenire per migliorare, ad esempio, la fruibilità del trasporto pubblico (per quanto di propria competenza) sì da evitare situazioni di sovraffollamento o potenziando la medicina di territorio, hanno pensato di prestare attenzione a chi passeggia tranquillamente all’aperto.

Il problema è che nel “fare tanto per fare”, ignorando evidenze e studi scientifici (così come è avvenuto quando il lockdown – estrema ratio che dovrebbe consistere in chiusure ristrette, mirate e razionali –  è stato scambiato con l’obbligo generale di chiudersi in casa), si rischia di smarrire la retta via e di perdersi nel labirinto di leggi e norme che attanagliano il BelPaese.

Così, sembrerebbe sfuggito ai più il fatto che in Italia esistono ancora delle norme, di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque non identificabili in un luogo pubblico.

Vigenti sono infatti sia l’art. 85 del Regio Decreto n. 773 del 18 giugno 1931, ossia il Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza, che l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975, novellato ed inasprito dalla Legge n. 155 del 2005 in tema di lotta al terrorismo.

Alla luce del fatto che esistono quindi norme di rilevanza penale che impongono – per ragioni di sicurezza, di ordine e di salute pubblica, ossia di salute dello stato “in persona civitatis” – di non comparire in luogo pubblico mascherati, o con altri mezzi che rendano difficile il riconoscimento, non si può non constatare come tutti noi abbiamo avuto esperienza di come le mascherine, portate da sotto il mento fino a coprire il naso (come prevede, ad esempio, l’ordinanza della Regione Puglia n. 374/2020 e tutti i DPCM emanati dal 13 ottobre 2020), molto spesso impediscano di riconoscere l’amico o il conoscente, soprattutto se si aggiungono cappelli, foulard  o occhiali da sole.

Sicché, dato che chi va in giro indossando la mascherina ut supra, fatto salvo un giustificato motivo, astrattamente starebbe commettendo un reato, dobbiamo chiederci  se i provvedimenti regionali, il Decreto Legge o l’ultimo DPCM possano rappresentare un giustificato motivo atto a fungere da scriminante ovvero da causa di giustificazione.

Da un punto di vista strettamente legalistico, parrebbe avere rilievo l’art. 51 c.p. che elimina l’anti-giuridicità del fatto criminale (nella specie andare in giro con un “cencio” sul volto) in virtù dell’adempimento di un dovere posto da una norma, indipendentemente dalla fonte normativa, ossia sia essa legge, regolamento, ordinanza.

Ma una norma che legittimi (rectius “scrimini”?) un comportamento criminale sull’intera popolazione, anche se in maniera illogica e non rettamente motivata, può comportare un’abrogazione tacita delle disposizioni del 1931 e del 1975, novellate dalla Legge del 2005?

Azzardata ci sembra l’ipotesi, anche perché essendo i provvedimenti che rendono obbligatorio l’uso della mascherina all’aperto sic et simpliciter non fondati su presupposti di fatto, non riportando infatti alcuno studio scientifico validato, non potrebbero avere la forza di limitare la vigenza e l’effettività di una norma di rango penale.

O meglio: certamente non può un’ordinanza, che resterebbe illegittima dunque per vari motivi non analizzabili in questa sede, mentre astrattamente potrebbe un Decreto Legge come atto equiparato alla legge.

Utilizziamo il condizionale perché la lettera del Decreto non solo tace sul punto, ma di fatto non prevede alcun obbligo esplicito di indossare alcunché: ne legittima semplicemente, sempre e solo sul piano della stretta legalità di diritto positivo, la possibilità, demandando in concreto ad una fonte secondaria (i famosi DPCM) la concretizzazione di questa possibilità del tutto astratta.

A questo punto, è chiaro che le c.d. fonti secondarie, pur traendo legittimità di merito nel Decreto Legge – che tra l’altro manca esso stesso di comprovati presupposti in fatto, oltre che delle caratteristiche della necessità e dell’urgenza – possono prevedere, per casi del tutto limitati, contingentati, e fondati la possibilità di limitare l’effettività delle norme penali citate, consentendo (ma non obbligando) all’utilizzo delle mascherine in luogo pubblico su base squisitamente volontaria. Ossia favorendo comportamenti basati sulla logica, sull’esperienza, sull’evidenza scientifica e sulla crescita personale ed investendo altresì in maniera più idonea le risorse destinate ai controlli per i potenziali trasgressori.

A nostro modo di vedere, del resto, lo stesso DPCM (da ultimo quello del 24 ottobre 2020) non prevede (né avrebbe potuto) un obbligo incondizionato di indossare le c.d. mascherine all’aperto: il combinato disposto tra il comma 1 e 2 dell’art. 1, lascia infatti presupporre che fintanto che esista il distanziamento fisico di 1 metro, non si è affatto tenuti ad indossare “dispositivi di protezione delle vie respiratorie”.

Se così non fosse, del resto, e non operando pertanto la causa di giustificazione ex art. 51 c.p., ci ritroveremmo nell’assurda situazione in cui a rischiare denunce penali sarebbero non solo tutti coloro che indossano la mascherina senza giustificato motivo – ossia, nel merito, per evitare che le proprie goccioline di saliva infettate dal virus responsabile di COVID-19 possano essere respirate dal soggetto non infettato che si trovi a contatto ravvicinato, in un luogo chiuso e scarsamente arieggiato, per un periodo di tempo sufficientemente lungo (dell’ordine di una quindicina di minuti) – ma anche i pubblici ufficiali.

E ciò nei casi in cui, in servizio, abbiano omesso di segnalare tutte le persone bardate e quindi non riconoscibili, incorrendo nel reato di cui all’art. 361 c.p.

Chiunque, poi, sarebbe passibile di istigazione a delinquere ai sensi dell’art. 414 c,.p. se dovesse intimare ad un passante di coprirsi la faccia indossando una mascherina.

Come si vede, sono ipotesi astrattamente – sia pur molto difficilmente – possibili, su cui un chiarimento sarebbe d’obbligo. Quello si, necessario.

Va aggiunta inoltre una questione, su cui si discute da molto: le mascherine, sono dispositivi sanitari o no?

Perché mentre diverse ordinanze regionali fanno riferimento alle c.d. mascherine di comunità, ossia quelle esentate da qualsiasi protocollo e valore sanitario (come specificava espressamente l’art. 16 comma 2 del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 convertito poi con la legge n. 27/2020 c.d. “cura Italia”), il Decreto Legge 7 ottobre 2020 parla di “dispositivi  di  protezione delle   vie   respiratorie” che, almeno in teoria, non dovrebbero essere le mascherine di uso comune.

Ed invece, il DPCM del 24 ottobre 2020, al comma 7 dell’art. 1, fa salve proprio le “mascherine di comunità, ovvero mascherine monouso o mascherine lavabili, anche auto-prodotte”. Dunque proprio quelle senza nessun valore dal punto di vista delle regole e dei protocolli atti a garantire i presidi medici.

D’altronde se  si trattasse di dispositivi medici ai sensi delle norme in materia, allora si porrebbero ulteriori problemi.

Il primo, un standard produttivo e qualitativo certificato per l’uso a cui sono destinate, ossia atte a garantire, scientificamente, la protezione delle vie respiratorie dall’infezione da Covid-19.

Cosa che, ad oggi, non sembra esserci.

A mera prova contraria, di veda l’articolo redatto sul New England Journal of Medicine a firma Michael Klompas, MD, MPH, Charles A. Morris, MD ed altri, che, pur dedicato agli ambienti ospedalieri (ossia chiusi ed in presenza continua di ammalati), sottolinea come “indossare una maschera fuori dalle strutture sanitarie offre poca o nessuna protezione dalle infezioni” e che  “il desiderio di mascheramento diffuso è una reazione riflessiva all’ansia per la pandemia”: fuori dai casi scientificamente provati (luoghi chiusi e poco arieggiati, permanenza oltre 15 minuti, contatti ravvicinati viso a viso), “le maschere svolgono ruoli simbolici. Le maschere non sono solo strumenti, sono anche talismani che possono aiutare ad aumentare il senso di sicurezza”.

Del resto, non erano proprio queste le indicazioni ministeriali di qualche mese fa?

Con il rischio che con l’estensione massiva e fuor da evidenza scientifica, le stesse mascherine vengano utilizzate male e che tutto il resto, ossia le pratiche di igiene personale, lo screening, le politiche adeguate, siano dimenticate “scaricando” tutto sul mero ed improprio uso delle mascherine. Che diventerebbero, quale panacea di tutti i mali, la versione autunnale del “restate a casa, andrà tutto bene”. Fino ad incarnare un vero e proprio totem.

Il secondo problema, poi, deriverebbe dal fatto che, sancendo i provvedimenti governativi l’obbligo di utilizzo di un dispositivo medico, tale obbligo sarebbe qualificabile quale trattamento sanitario. Ma in tal caso, potrebbe essere disposto soltanto dal Sindaco, dopo apposita visita medica che dichiari la necessità del trattamento.

E pertanto un obbligo siffatto violerebbe la legge in tema di c.d. accertamento e trattamento sanitario obbligatorio e, più in generale, diritti costituzionalmente garantiti. Ma questo richiede un altro discorso.

Luca De Netto

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