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IL REGNO DELL’INIQUO E’ GIA’ TRA NOI ED HA IL VOLTO DEL CAPITALISMO FINANZIARIO. Di L. Copertino – Parte Seconda

Origini e sviluppo del capitalismo finanziario

Alle origini – contenuta in accettabili limiti da mille vincoli di natura etico-religiosa, politica, corporativa – l’attività bancaria, nella quale si espresse inizialmente la finanza, doveva muoversi tra le strette maglie di una fitta rete di obblighi sociali che la costringevano a non distaccarsi troppo dall’attività produttiva reale. Questo, in una costante tensione, è stato tra alti e bassi lo scenario dei secoli moderni, fino all’ultima parte del secolo scorso. Già latenti in precedenza, le pulsioni emancipatorie della finanza hanno tuttavia trovato definitiva affermazione nel passaggio al terzo millennio travolgendo, grazie alla globalizzazione, l’ultimo argine che era costituito dallo Stato quale agente della coesione nazionale. Emancipandosi dallo Stato, la finanza ha proclamato il suo insindacabile e globale dominio sopra tutto e tutti.

Essa ora controlla l’intero mediasystem globale e suo tramite crea l’etàt d’ésprit, la narrazione ufficiale, che le consente di ampliare il consenso al proprio dominio. Controlla anche tutte le piattaforme digitali sicché è in grado di censurare qualunque voce avversa al suo potere mondiale. In un mondo nel quale anche il denaro sta per diventare virtuale e nel quale la sua circolazione dipenderà dai circuiti informatici, sicché chi sarà espulso da essi non potrà “né vendere né comprare”, il domino del capitale finanziario multinazionale si appalesa ormai come il nuovo volto del totalitarismo appropriato all’epoca post-moderna che è epoca oltre-statuale. Il vecchio capitalismo produttivo è stato sostituito dal nuovo capitalismo finanziario. Un capitalismo dispotico nel potere ma rivoluzionario e libertario nei costumi che sta creando un Mondo Nuovo con la collaborazione dei governi. I quali infatti vanno adempiendo i suoi desiderata per comprimere la crescita demografica, espellere in nome della “creatività digitale” il lavoro umano dai processi produttivi, mantenere in uno stato di passiva rassegnazione le masse, distanziate dal controllo sanitario, garantendo loro un reddito universale di cittadinanza funzionale da un lato all’abbrutimento inoperoso degli uomini e d’altro al sostegno della domanda per la produzione automatizzata. Tutto questo ha uno scopo chiaro ed evidente che è quello di consolidare il potere della sovrastruttura finanziaria riducendo lo spazio e l’autonomia dell’economia produttiva a quel tanto che necessita ancora. Fino a quando – questo è il sogno del tecnocrate finanziario, novello Faust – la tecnologia non consentirà l’eliminazione totale anche di questo residuo produttivo senza che la sovrastruttura cada nel vuoto da essa stessa provocato.

Sono in atto – lo hanno chiamato “Great Reset” – ampi processi di ristrutturazione capitalistica i cui contorni vanno chiaramente delineandosi nel senso sopra descritto. Un’accumulazione in alto di potere transnazionale che si impone in basso per il fatto che è il capitale volatile, virtuale, a decidere come, quando, dove ed a che condizioni temporaneamente allocarsi, sicché Stati e governi sono lì a supplicarlo che scelga il loro territorio rendendosi disponibili a qualunque sua richiesta pur di assicurarsene i favori.

Personalità ed impersonalità

Laddove il vecchio capitalismo era sostanzialmente personificato, anche quando aveva connotazioni borsistiche e azionarie, il nuovo capitalismo ha portato all’estremo l’impersonalità già latente nel vecchio. Un tempo si sapeva che la Fiat, società anonima, faceva capo alla famiglia Agnelli e tutti conoscevano l’avvocato Gianni Agnelli. Tutti conoscono un Silvio Berlusconi benché anche Mediaset sia una società anonima. Lo stesso dicasi per i grandi capitalisti del passato come Henry Ford o la famiglia Krupp. Persino i grandi finanzieri di un tempo avevano nomi e cognomi, dai Rockefeller ai Rothschild eredi dei più antichi Fugger. Oggi, invece, l’anonimato e l’impersonalità del capitale sono aumentati fino a fargli assumere connotazioni di autonoma consistenza indipendentemente dal fattore umano. E’ vero che anche nella nostra epoca i grandi managers digitali, padroni delle reti informatiche, ed i grandi finanzieri hanno nome e cognome, come Mark Zuckeberg, George Soros o Bill Gates, e tuttavia essi sembrano, nonostante il loro potere e la loro popolarità, piuttosto agiti che agenti, piuttosto strumenti di un “altro” potere che sta dietro di loro. Un potere senza volto, un potere anonimo. O meglio un Potere extraumano, oscuro, che nasconde il suo volto ed il suo nome dietro una maschera di suadente filantropia umanitaria.

«Quando parliamo del capitalismo – scriveva José Antonio Primo De Rivera in “Filosofia dissidente” – non parliamo della proprietà privata. La proprietà privata è il contrario del capitalismo; la proprietà è la proiezione diretta dell’uomo sulle sue cose: è un attributo elementare umano. Il capitalismo ha sostituito questa proprietà dell’uomo con la proprietà del capitale, dello strumento tecnico della dominazione economica. Il capitalismo, mediante la concorrenza terribile e diseguale del grande capitale contro la piccola proprietà, ha annullato l’artigianato, la piccola industria, la piccola agricoltura: ha collocato – e va più che mai collocando – tutto in potere dei grandi trusts, dei grandi gruppi bancari».

Una descrizione magistrale del capitalismo anonimo come esso già appariva negli anni ’30 del XX secolo. Oggi questi caratteri di impersonalità egemonica sono diventati ancora più evidenti e raffinati grazie alla finanziarizzazione integrale dell’economia e grazie alla nuova tecnologia virtuale. Ma la radice di questo anonimato, ormai completamente emersa, è antica. Lo dicevamo: essa era embrionalmente già presente agli albori umanistico-rinascimentali del capitalismo benché all’epoca, e fino al XX secolo inoltrato, era trattenuta nella sua potenzialità emancipatoria, anti-realistica e dematerializzante. Questo freno è venuto progressivamente meno con il passare dei secoli.

L’Anonimato in titoli azionari

Lo strumento principale, accanto alla moneta fiat, per lo sviluppo del capitalismo finanziario ed anonimo è stato il titolo azionario mediante il quale la proprietà concreta, personale, fu trasformata in un valore creditizio da giocare in borsa. Fino al medioevo si conoscevano soltanto forme societarie di persone, a contenuto personale, nelle quali la “communio”, ovvero la condivisione del capitale, aveva forma di comproprietà tra i soci, ossia tra gli associati, mediante il contratto di società, nella medesima impresa in quanto persone fisiche. Certo, si svilupparono ben presto sistemi di riduzione del rischio e della responsabilità sociale, separando il patrimonio conferito nella società da quello generale del socio e dei suoi eredi. Ma comunque il carattere personale dell’impresa sociale restava basilare.

Con l’età moderna, a partire soprattutto dal XVII secolo, si sviluppano le società anonime nelle quali i soci non sono più comproprietari del capitale sociale ma soltanto creditori di una quota di utile aziendale, proporzionale al conferimento finanziario, mentre il capitale assurge al rango di una fittizia persona giuridica, non esistente nella realtà concreta ma solo nella realtà giuridica. La società anonima, quale persona giuridica, infatti esiste soltanto nell’astratto mondo del diritto anch’esso vieppiù emancipatosi, lungo i secoli, dalla concretezza comunitaria sottostante. Nella società anonima non i soci ma la persona giuridica è proprietaria del capitale sociale, benché essa sia poi amministrata da un ristretto gruppo di persone egemone sulla massa dei piccoli conferitori di capitale. Per controllare la società anonima, infatti, basta controllare la fetta più cospicua di capitale, anche non maggioritaria nel caso in cui il resto sia frammentato in una miriade di azioni diffuse ma non aggregate.

Questa trasformazione della società imprenditoriale fu resa possibile dall’introduzione dell’“azione” che non è un titolo di proprietà ma un titolo di credito. Il suo possesso garantisce all’azionista soltanto un diritto sull’utile aziendale esercitabile, come titolo di credito nei confronti della persona giuridica, distinta dal socio, nella quale consiste astrattamente la società. E’ evidente il carattere di impersonalità dello strumento azionario che, infatti, è stato pensato proprio per passare facilmente di mano in mano. Deresponsabilizzando, però, i suoi possessori rispetto alle sorti dell’azienda perché, se non sono comproprietari del capitale aziendale, quel che per essi maggiormente conta è il valore che le azioni godono sul mercato dei capitali ovvero nel gioco di borsa. La stessa “borsa” era in origine nient’altro che la piazza del mercato organizzata per lo scambio di beni reali, di merci effettive. Ben presto essa, a partire dal XVII secolo, diventò il luogo della quotazione di valori puramente finanziari, rappresentati documentalmente da obbligazioni e titoli di credito di vario genere, che consentivano di vendere e comprare valori reali sottostanti ma lucrando non dalla riscossione di questi ultimi bensì sul differenziale di scambio, variabile quotidianamente, dei titoli rappresentativi. I “contratti derivati”, forme di assicurazione dal rischio speculativo ed essi stessi strumenti di manipolazione dello scambio virtuale, nascono qui. Come da qui nascono anche le prime forme, già più mature, di finanziarizzazione dell’economia.

Economia anti-umana

Certo, agli inizi, un legame tra il valore borsistico delle azioni e la redditività dell’azienda sottostante sussisteva, sicché il valore di scambio delle azioni dipendeva anche dal valore dell’impresa e dai risultati imprenditoriali. Questo è vero, seppur ormai in minima misura, anche oggi. L’innovazione fu ben accolta perché consentiva di convogliare la liquidità dei mercati verso gli investimenti capitalistici consentendo alle imprese di accedere ad ingenti risorse di denaro liquido, di diventare così sempre più grandi, potenzialmente senza alcun limite, fino a raggiungere impersonali dimensioni multinazionali e globali, superando la dimensione artigianale e piccolo-imprenditoriale del tradizionale assetto realistico dell’economia premoderna. Ma con il passar dei secoli il legame tra l’elemento finanziario e quello patrimoniale delle imprese, quindi anche il legame tra impresa e personalizzazione dei suoi assetti societari, si è divaricato sempre di più fino a quasi completamente rompersi. Il capitalismo finanziario, impersonale ed anonimo, è stato il risultato di questa rottura.

Come si vede, si tratta di uno sviluppo dell’economia del tutto anti-umano nella misura in cui tende ad eliminare, con costante accrescimento, il fattore uomo per sostituirlo con gli impersonali meccanismi finanziari di mercato che ne rivelano, a chi ha occhi per vedere (“egli è stato omicida fin dal principio”, Gv. 8-44) la criptica natura sulfurea. Nell’attuale mondo globale, nel quale il capitale finanziario è un assoluto dominus, non ci si può meravigliare se la piccola attività economica, concreta, umana, sta morendo a favore dei grandi complessi anonimi. Non solo la produzione ma anche lo scambio commerciale ormai non passa più per il piccolo esercizio e neanche per il grande magazzino, che pure è stato l’antesignano del commercio elettronico odierno, ma per la piattaforma virtuale di Amazon, e simili multinazionali, nelle quali i lavoratori non hanno più diritti perché costantemente sotto la minaccia della delocalizzazione aziendale.

Il valore delle azioni in borsa ormai si misura sempre meno dalla redditività delle imprese quotate, che in genere sono le più grandi e di dimensioni transnazionali, e sempre più dal livello della libido speculativa che muove le borse. Un “rumor”, una svendita di azioni improvvisa e ben organizzata, una sapientemente orchestrata manovra di insider training tale da camuffarla per sfuggire alla debole ed impotente legislazione repressiva, sono capaci di provocare il panico inducendo milioni di piccoli azionisti ad accettare acquisti al ribasso da parte di chi ha interesse ad accumulare a basso costo per poi rivendere, lucrando speculativamente sul differenziale, in un momento successivo a prezzi maggiorati o anche da chi ha semplicemente interesse a controllare il mercato in posizione dominante.

In un contesto nel quale le quotazioni borsistiche devono crescere freneticamente, al solo scopo di consentire la speculazione sui differenziali dello scambio, è evidente che non si può attendere, onde conseguire l’aumento del valore dei titoli azionari, l’andamento naturalmente più lento della economia produttiva sottostante. Bisogna che il valore delle azioni delle imprese cresca se non proprio indipendentemente dalla redditività aziendale – ma è questo per gli speculatori lo scenario migliore – quantomeno camuffando tale reddittività. Ecco perché, a differenza di quanto accadeva un tempo quando un’ondata di disoccupazione preoccupava quale evidente segnale della diminuzione della domanda e quindi del valore azionario ancora connesso alla produzione, la finanziarizzazione estrema consente attualmente iniqui escamotage come quello di aumentare apparentemente la redditività aziendale abbassando i costi di produzione mediante licenziamenti di massa, magari sostituendo gli uomini con i robot. Se poi, come è oggi permesso, i Ceo management delle grandi multinazionali sono essi stessi azionisti, che guadagnano miliardi dal differenziale sullo scambio delle quotazioni azionarie, anziché essere premiati per la perfomance aziendale, è evidente che la corsa verso l’abisso del nulla economico diventa inarrestabile. Una corsa fino al disastro, folle nella sua irrazionalità, la cui molla propulsiva sta innanzitutto nell’avidità umana. Quando poi arriva il disastro esso, di solito, lascia cadaveri ovunque ma quasi mai fra gli speculatori.

[Segue dalla prima parte…]

[continua…]

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