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WALL STREET 1917 – "NUOVO ORDINE MONDIALE". Di Andrea Giumetti

Utilizzare termini come “nuovo ordine mondiale” o “poteri forti” inevitabilmente ci spinge a pensare immediatamente alla galassia delle teorie del complotto, che oggi godono, in una maniera che può essere più o meno meritata, di enorme importanza nel discorso pubblico quotidiano. Studiare la storia, e quindi leggere gli eventi passati sotto la lente del metodo scientifico, aiuta però a fare chiarezza in mezzo al marasma di teorie più o meno bizzarre e ci fornisce strumenti per capire meglio anche il nostro presente, nella misura in cui appare piuttosto evidente che i “complotti” in quanto tali esistono, poiché è nella natura umana il pianificare in anticipo, e agire di conseguenza, gli avvenimenti futuri. Tutti noi infatti ragioniamo, seppure inconsciamente, sulla base del meccanismo di causa-effetto e per tanto cerchiamo di ottenere un risultato specifico provocando le condizioni che lo causeranno: una casalinga che vuole avere del gelato nel frigo si preoccuperà di procurarselo andando a fare la spesa, un commerciante che vuole ottenere il massimo guadagno possibile dalla vendita dei suoi beni cercherà di venderli nel luogo e nel momento migliori, un politico che vuole essere eletto cercherà di agire in maniera tale da assicurarsi i voti di una specifica categorie e un investitore che vuole arricchirsi cercherà di tutelare quanto più possibile il tuo investimento, magari danneggiando quello dei suoi concorrenti nel processo. Conoscere la storia, in questo senso, ci aiuta a ricostruire i passaggi a ritroso, evidenziandone tutte le possibili conseguenze e motivazioni, ma anche a comprendere meglio come poi accada puntualmente che gli avvenimenti prendano una direzione evidentemente diversa rispetto a quella originariamente prevista, con conseguenze a lungo termine imperscrutabili, perfino in avvenimenti apparentemente molto chiari e definiti.

Quando nel 1913 Thomas Woodrow Wilson venne eletto come 28° presidente degli Stati Uniti, nessuno tra i suoi elettori avrebbe immaginato che si sarebbe potuto trovare coinvolto in una guerra pochi anni dopo: non tanto perché fosse inimmaginabile lo scoppio della Grande guerra in se, visto che da anni aumentava costantemente la tensione tra le potenze europee, ma piuttosto per il fatto che la società statunitense, nella quale non si era ancora sviluppato quel mastodontico complesso militar-industriale (che oggi abbiamo ben presente), era sostanzialmente piuttosto refrattaria alla guerra (con l’evidente esclusione delle imprese coloniali e della segregazione violenta di popoli oppressi). Vale la pena di far notare che la vittoria di Wilson alle elezioni fu in effetti piuttosto inaspettata: benché il personaggio godesse di grande popolarità nei circoli accademici, le sue idee radicali in alcune critiche alla politica interna americana, così come il suo essere un convintissimo assertore del suprematismo bianco, non sembravano qualificarlo come il candidato ideale. Tra gli accademici viene in effetti ampiamente riconosciuto che se i democratici vinsero le elezioni del 1913 fu prevalentemente perché i suoi avversari, il presidente uscente Taft e il popolarissimo Teddy Roosevelt, spaccarono le preferenze dei repubblicani. Pochi erano però a conoscenza delle idee di politica internazionale di Wilson, che fino alla fatidica dichiarazione di guerra alla Germania Guglielmina del 1917 (dopo che era stato rieletto) egli aveva teorizzato prevalentemente solo in forma di scritti privati e diaristici; perfino oggi, viene generalmente insegnato nelle scuole soltanto la parte inerente ai 14 punti e alla “Società delle nazioni” e si tralascia, invece, il progetto per “il nuovo ordine globale”. Wilson voleva infatti che gli Stati Uniti uscissero dall’isolamento in cui si erano chiusi con la dottrina Monroe (che sostanzialmente limitava l’influenza e l’area di azione degli USA nel solo continente americano), contribuendo attivamente a creare un nuovo mondo basato non più sulla primarietà della politica e dell’identità nazionale, ma bensì sul libero commercio e l’abbattimento delle barriere doganali, in cui la ricerca del profitto e della produttività avrebbe di fatto reso superata e indesiderabile la guerra (un vecchio topos della scuola economica classica, ampiamente smentito dalla crisi del ’29), gli imperi avrebbero ceduto il posto ad una comunità di stati uniti europei e dove le controversie si sarebbero dovute risolvere in sede di contrattazione internazionale. Va da sé che ciò che Wilson lascia sottinteso, è che in questo nuovo ordine globale liberale la maggiore potenza economica sarebbe stata quella a dettare legge, ruolo che incidentalmente all’epoca, con Germania, Francia e Impero britannico che si dissanguavano a vicenda, era incontestabilmente detenuto dà gli Stati Uniti. Ma come abbiamo già detto, se il presidente degli USA era in parte favorevole ad un intervento quale mezzo per creare un nuovo ordine mondiale ad immagine e somiglianza della società statunitense, quest’ultima non era invece assolutamente disposta a mettere in gioco le vite dei suoi giovani per una guerra lontana di cui non comprendeva gli ideali e senza una reale parte con cui schierarsi. Questa indecisione si riflette in tutta la società, dagli uomini della strada ai politici, dai giornali (di cui magari uomini d’affari europei hanno quote azionarie) ai banchieri, che stanno effettivamente finanziando, vendendo beni e garantendo prestiti sia agli Imperi centrali, che agli Alleati. Ma ci sono individui, dotati di grandissimo potere economico ed influenza nel mondo degli affari, che invece hanno le idee molto chiare su quale schieramento dovrebbe vincere la Grande guerra, e che si adoperano con grande energia e forza per la vittoria della propria parte.

A questo punto, è necessaria una piccola digressione per aiutare a capire quanto nel 1914, allo scoppio della Grande guerra, il ruolo della finanza internazionale avesse raggiunto una importanza fondamentale quale criterio nell’influenzare le decisioni degli stati. Sebbene la scala di interconnessione delle economie non sia paragonabile a quella che abbiamo oggi, nondimeno già nei primi del ‘900, con l’espansione del gettito monetario (quindi c’era più moneta in circolazione per tutti), l’istituzione su impulso della banca d’Inghilterra (un istituto privato, si noti bene) del gold standard (ovvero l’emissione di banconote convertibili in oro, e in particolare la totale convertibilità della Sterlina) e i miglioramenti tecnologici per quanto riguardava treni e navigazione, la rendita estera rappresentava quote importanti del prodotto interno lordo delle grandi potenze (circa un terzo nel caso della Gran Bretagna). Un’analisi sulle dimensioni di questo fenomeno e sulle conseguenze che ebbe nell’influenzare le decisioni politiche che condussero ai maggiori eventi intercorsi nei primi del novecento richiederebbe fin troppo spazio, ma possiamo qui citare alcuni casi emblematici come il fatto che importanti pezzi dell’industria pesante italiana avessero partecipazioni di capitale tedesco (immediatamente espropriate senza indennizzo al momento dell’ingresso in guerra), o che nel 1917 la quasi totalità della gigantesca industria del ferro russa facesse capo a società non russe, con conseguente sdegno dei rivoluzionari e dei nazionalisti del paese che ne denunciarono le condizioni lavorative. Ma tornando alle transazioni finanziarie, oggi come allora, chi si occupava di regolarle e gestirle erano gli istituti bancari, che in quanto custodi di grandissime riserve di denaro depositate in massa dalla popolazione, venivano ad acquisire naturalmente anche un importantissimo peso politico nella misura in cui la loro prosperità e la salvaguardia degli investimenti diventava una fondamentale questione di ordine pubblico e interesse nazionale. Nel caso specifico che stiamo prendendo in esame, fu la banca di investimenti J.P. Morgan (ancora esistente e operante oggi), che aveva forti legami con Londra e con il partito repubblicano statunitense (a favore dell’intervento in Europa) ad attivarsi con maggiore enfasi affinché gli investitori americani prestassero denaro ai governi alleati. Il flusso di capitale che partiva da Wall street verso l’Europa (che nel 1917 raggiunse, per i soli alleati, prestiti stimati in poco meno di 10 miliardi, circa 200 miliardi in dollari di oggi), inevitabilmente finiva per ritornare negli USA sotto forma di acquisti di materiali e viveri, con l’effetto di stimolare una vera e propria esplosione del manifatturiero americano. L’America non era in guerra, ma i suoi risparmiatori avevano investito miliardi di dollari nella guerra, creato imprese la cui sopravvivenza era legata alla guerra e moltitudini di operai avevano un lavoro proprio per via della guerra: apparve presto chiaro a tutti quelli che avevano i conti sottomano che ormai il coinvolgimento e gli interessi legati ad una vittoria degli Alleati erano “too big to fail”. Ma anche in Europa ci si rese presto conto della differenza di peso in termini di materiali che gli Alleati erano in grado di mettere sul piatto grazie alla copertura finanziaria della J.P. Morgan; l’Impero tedesco, prevedendo correttamente che prima o poi gli americani sarebbero comunque intervenuti militarmente, decise di fare le due fatidiche mosse preliminari che troviamo raccontate in tutti i libri di storia: fu ripresa la guerra sottomarina indiscriminata e venne aperta una trattativa con il Messico per un eventuale riapertura della guerra Usa-Messico. Questo diede la scusa perfetta per convincere la maggioranza dell’opinione pubblica statunitense sulla necessità di colpire la Germania, e come è risaputo il 6 Aprile 1917 gli Stati Uniti dichiararono ufficialmente guerra all’Impero tedesco.

Dallo studio di queste vicende, la storia di come gli Stati Uniti si siano trovati coinvolti nella Grande guerra, possiamo comprendere come possa avvenire che le macchinazioni di una serie di individui volenterosi e con i giusti mezzi e capacità finiscano per coinvolgere e vincolare milioni di vite a decisioni che normalmente non avrebbero preso. Tuttavia, come segnalavo nell’incipit di questo articolo, questo non deve portarci a sopravvalutare il ruolo che questi personaggi possono ricoprire nelle vicende, poiché gli uomini sono per loro natura limitati e in quanto tali non in grado di prevedere tutte le possibili variabili: finita la guerra con la prevedibile sconfitta degli imperi centrali, i comuni cittadini americani non vollero approvare il disegno del nuovo ordine globale, l’Europa non si sciolse in una realtà federale e il boom produttivo e finanziario che gli USA avevano conosciuto durante la guerra si risolse nel crollo della borsa del 29’. Sarebbe stata necessaria un’altra guerra mondiale, con il conseguente totale dissanguamento delle forze identitarie e creative dell’Europa, la costituzione di un colossale complesso militar-industriale negli Stati Uniti e soprattutto la Guerra fredda, affinché un modello di ordine globale centrato sul potere dell’asse atlantico potesse concretizzarsi, e tuttavia perfino oggi, che apparentemente la nostra fedeltà a questo asse e al mondo liberista sembra indiscutibile, nuove forze appaiono continuamente a complicare il quadro generale, a dimostrazione che nonostante tutto, la politica e l’identità non sono semplificabili in numeri e statistiche.

Andrea Leandro Giumetti

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