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IL PARADOSSO DELLA COSCIENZA NELL’ESPERIENZA TRASFORMATRICE. Di Madame Janus

“La misura degli esseri è infinita, il loro tempo non ha termine, la loro condizione non ha permanenza. Il Tao non ha fine né inizio.” (Zhuang-zi).

Debita premessa: fino a che punto si può intendere una contrapposizione tra il concetto religioso di Creazione e quello di Manifestazione. In accordo a Réne Guénon  «coloro il cui orizzonte intellettuale non va al di là delle concezioni filosofiche immaginano solitamente che dove non si parla di Creazione, e dove però è evidente che non si ha a che fare con teorie materialistiche, può esistere solo il “panteismo”. L’imputazione di panteismo rivolta alle dottrine orientali è assurda visto che il panteismo è in realtà essenzialmente antimetafisico». Come lo stesso esoterista francese fa notare, non significa necessariamente che l’idea di Creazione si contrapponga a quella di Manifestazione e che qualsiasi concezione demiurgica o di metafisica dualità sia falsa, ma che corrisponde a un punto di vista più ristretto. Guénon adduce l’esempio dell’Islam, «nessuno oserebbe certo contestare il fatto che l’Islam, nel suo aspetto religioso o essoterico, sia tanto creazionista quanto il Cristianesimo; tuttavia ciò non impedisce affatto che, nel suo aspetto esoterico, vi sia un certo livello a partire dal quale l’idea di Creazione scompare». Qui viene riproposta la distinzione tra essoterico, ovvero più esterno e relativo, ed esoterico, più interiore e non immediato, non accessibile in egual misura a tutti, dove l’impedimento iniziale è come sottolineava Luc Benoist «quello dell’idolatria che consiste nel confondere l’apparenza con l’essenza, l’approccio con l’arrivo». Ma che gli esseri siano differenti, dotati di dissimili forze, capacità, e volontà, nati in un contesto e in circostanze più o meno favorevoli, è un dato  che si offre anche nella quotidianità, e quindi a maggior ragione quando non si tratta di un discernimento intellettuale o culturale, quanto maturato nelle esperienze che attraverso l’ascesi trascendono necessariamente il punto di vista di partenza. Non è propriamente l’attitudine definita dal teologo cattolico Horst Bürkle, «per colui che vive della sua fede il carattere vincolante e l’affidabilità della religione non stanno affatto nella propria scelta o nel grado di quanto egli ha compiuto e realizzato». La bontà di qualsivoglia decifrazione della realtà può vincolare per converso l’esperienza all’orizzonte in cui identifica il possibile, ricordando nondimeno che rispetto alla Realtà primordiale tutto è squilibrio.

Il Neoplatonismo vedeva l’eternità e il tempo come estremi di un continuum. L’intelletto che è origine del moto al contempo è potenzialità del “ricordo”, dell’anamnesi, rottura radicale con il pensiero dicotomico. Il termine greco tradotto con eternità è aion e per Platone «la sua natura è perpetua». Nei Veda, per parallelo, l’immortalità è un perenne rifare, perpetua rinascita. Quel che è più importante è l’idea soggiacente in riferimento al tempo, inteso da un lato come durata, dall’altro come continuità, e metafisicamente come simultaneità: il tempo delle origini che interseca quello mortale, il tempo delle origini in perpetua attualità.

E’ della coscienza umana il poter pensare al di là di se stessa, presagire o idealizzare un superamento che nell’esperienza comune è indisponibile: infatti quel che naturalmente possediamo è sempre la coscienza di qualcosa. Il culmine di un’ascesi è per converso l’arresto dell’attività spontanea della mente: la coscienza non è più coscienza di qualcosa di esterno. Il pensiero puro affermato da Aristotele, la mente celata di luminosa e divina completezza. Per il Samkhya, come implicitamente nel Buddhismo, è la mente primordiale – tenendo presente che il tempo nell’esperienza contemplativa è sempre potenzialmente reversibile – quella mente che non è quella discriminante che ingloba dati, discerne la realtà dall’irrealtà, quella che concepisce il senso attraverso l’oggettivazione di ciò che si contrappone, dell’objectum, precipuamente della distinzione tra soggetto ed oggetto.

Lo stato primordiale, la realizzazione contemplativa, per quanto possa essere temporanea, non è caratterizzabile, è coincidentia oppositorum, inanticipabile e impensabile unione degli opposti. L’arte religiosa nelle più varie culture l’ha suggerita iconograficamente come alterità, quando elementi caratterizzanti il maschile si combinano a quelli caratterizzanti il femminile nelle rappresentazioni delle divinità bisessuate.

Nagarjuna sosteneva che Nirvana e Samsara non sono due, e nella mistica islamica «ovunque lo sguardo si volti, là è il volto di Allah». Affermazioni della realtà non-duale, inaccessibili alla razionalità. Nel Cattolicesimo parvero spesso incomprensibili le parole del mistico medievale Eckhart, «l’occhio con cui Dio ci guarda è lo stesso occhio con cui noi vediamo Dio», forse quanto quelle di Giovanni della Croce, «mio il Sole, mie le stelle, mia la Madre di Dio». Non è questione qui di dottrina più o meno eterodossa, quanto di esperienza che non può essere rinchiusa nelle categorie del pensiero e del linguaggio. D’altra parte Paolo di Tarso avvertiva «chi fra voi appare saggio, pazzo divenga per essere saggio». L’estasi oltre l’orizzonte fenomenico è assimilazione tra conoscente e conosciuto.

Quel che voglio enucleare, adducendo esempi estrapolati in diversi contesti, è che il fondo che accomuna differenti forme di ascesi ha le sue radici in un’esperienza radicalmente altra.

L’avvertimento presente nel Buddhismo è che la speculazione non avvicina l’illuminazione, frutto dell’esperienza trasformatrice subitanea e non di un contenuto dialettico. Ma di norma è necessario preparare il terreno. Per alcune tradizioni nate o propagatesi nell’alveo del Buddhismo – ricordando in particolare quelle correnti che sono state permeate dal Taoismo – il pensiero è originato dalla mente dualistica, selettiva, vive nelle aporie, per cui occorre guardarsi dalla comprensione che nasce esclusivamente dalle parole. Riprendendo la mirabile formulazione del Tao Te Ching: “il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao”.

L’immortalità nelle tradizioni orientali va oltre il concetto di salvezza, di sopravvivenza, è liberazione. Può apparire un ideale esasperato, estremo rispetto a quello di persistenza agognato dai più, un fantasma. Il fondamento, che troviamo ben esplicitato nelle Upanishad, è che l’io autentico dell’essere umano non è quello che subisce continue variazioni negli eventi della vita, quel “io” di cui di norma si ha una più o meno estesa e mutevole consapevolezza, ma il Sé, equivalente al Nous greco, o Intelletto divino transconscio. Plutarco descrive la divinità egizia Osiride come regnante su un mondo puro e invisibile agli occhi, in cui il defunto entra trasformato in Osiride stesso. Che l’uomo possa rivivere nel proprio destino il rinnovamento della divinità, o di un eroe mitico, è un tema presente tra differenti popoli, e come ben noto è centrale nel Cristianesimo. Che lo scettico o lo studioso possa vederla come mera ipotesi non scalfisce in alcuna misura il fatto che nasca dall’esperienza paradossale intesa anticipare quella della morte, esperienza estatica e catartica per eccellenza.

La religione ha non di rado posto l’accento sull’irrimediabile distanza tra l’uomo e il divino, l’assolutamente altro. La mente umana pensa naturalmente in termini di opposizione: il pensiero è dualità. Ma la concezione del divino separato dall’uomo non è universale, né potrebbe esserlo. «L’approccio buddhista alla spiritualità è quello del risveglio interiore e non il mettersi in relazione a qualcosa di esterno. Non postula una divinità esterna». (Chogyam Trungpa). Nondimeno nel Buddhismo devozionale della Terra Pura, il Buddha è la divinità sostanziale a cui i credenti si affidano. Nemmeno a sottolinearlo nel Buddhismo, come in definitiva in ogni altra religione, esistono molteplici livelli di comprensione e prospettive.

La ragione e il sentimento vogliono tutto il possibile, invero anche l’impossibile. L’uomo non molla facilmente le proprie nostalgie, né la presa dal pensiero in cui ha certezza di sé. L’esperienza contemplativa se è vista come progressione della forza che nasce nella concentrazione, dalla purezza del sentimento e delle intenzioni, non meno che dalle facoltà dell’immaginazione, è al suo apice il cortocircuito della coscienza precedente lo svelamento folgorante, l’istante dell’attualizzarsi della non-dualità. Il non-luogo dove il pensiero dicotomico è bandito. Sul piano dell’esperienza comune intercorre una distanza simbolicamente paragonabile tra il ragionamento che passo dopo passo viene raffinato, e lo choc, che coinvolge e sconvolge ogni parte del nostro essere.

Il molteplice e la sua origine, il centro della perenne Beatitudine, non sono mai separati, è detto nelle altezze delle Upanishad. Non è un caso che mistici di ogni luogo e tempo abbiano avuto spesso un atteggiamento ironico e non conformistico, perfino verso quelle rivolte che pure essi stessi hanno talvolta abbracciato senza remore. Il paradosso nel linguaggio suggerisce, senza ovviamente afferrarlo né esaurirlo, l’impensabile al di là di ogni opposizione.

Madame Janus

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